L’IMMAGINE DISTANTE
È un maestro di lampante derivazione surrealista. E non si tratta di una generica assimilazione di un modello di riferimento, bensì di una genesi coscientemente specificata, un’adesione al surrealismo classico, a quello di Magritte, per intenderci.
Dal surrealismo alla metafisica, per Gianni Gianasso il passo è stato breve: egli infatti affronta oggi il soggetto prescelto con responsabilità, esaltando ogni volta il colore come scrittura di sentimenti. Si tratta qui di un virtuoso, di un artista metafisico, nella cui opera la poetica dell’assenza ben si coniuga alla presenza costante della malinconia.
A lui, poeta solitario di una visione umana oggettiva estremamente contenuta, non interessa il ricorrente discorso sulla morte della pittura, sostituita dalla tecnologia o dall’atto puro del pensiero concettuale.
Al contrario, egli ha saputo ritagliarsi, in questi anni di grande confusione, un proprio spazio di libertà e una propria autonomia di contenuto, esaltato dalla qualità di una rappresentazione umana situata fuori dal tempo e dalla storia.
Figure silenti che paiono sorgere dall’ombra, immerse in una luce non terrena, sono il frutto compositivo di uno straordinario disegno preparatorio e il risultato formale di una meditata leggerezza di campiture. Il lavorio mentale del pittore perviene all’ottenimento di una forma asettica, senza sbavature, in cui ogni dato sensibile acquista un valore quasi epigrammatico, perentoriamente enunciativo.
A differenza degli espressionisti esistenziali del secondo dopoguerra (penso allo straordinario caso di Francis Bacon), Gianasso avverte evidentemente il fare arte come affermazione vitale, per cui l’ambiguità di un gesto o di uno sguardo potrà pure esprimere il significato del dolore (v. Breaking, 1996), ma certamente non la dissoluzione del corpo umano.
Se da quanto abbiamo già detto si può definire la finalità della sua poetica, bisogna tuttavia percorrere l’avvicendarsi, nel corso degli ultimi anni, delle opere di questo pittore per comprendere come il suo fare metafisico sia andato gradatamente sottraendosi all’impulso di un’immaginazione narrativa psico-fisiologica, per acquisire una sempre maggior nitidezza espositiva.
Nella sua visione più intimistica, egli sa ricostruire l’astratta geometria dell’anima e riconciliare il sentimento dell’esistenza con l’estetica della forma (v. Il Filo d’Arianna e Dream). È forse l’unico artista contemporaneo, fra tutti quelli che abbiamo conosciuto, che sappia affrontare la figura umana non come evasione, o come illustrazione iperrealista, bensì come angolazione visiva di un’energia immanente e, nel contempo, come esplicitazione emotiva della presenza (v. 16 agosto).
Ci troviamo così di fronte all’esaltazione, tra il visionario e il simbolico, di un poeta dell’immagine, che punta alla pittura come espressione di vita, segnalando la chiarezza intellettuale che gli è propria, il bisogno appassionato di comunicare le sue visioni. I suoi dipinti, quelli di cui la figura umana padroneggia lo spazio della tela in modo eccelso, sono sempre occasioni di svolgimenti di un discorso plastico e poetico che, a nostro avviso, tocca il punto più alto in una composizione del 1994, Categoria VO., che mette in scena un vecchio seduto (forse il padre dell’artista?), ripreso di profilo, in piena luce, che sembra specchiarsi in un presagio di infinito.
È questo un lavoro che testimonia un livello compositivo indiscutibile, confermando la presenza di una artista capace di coniugare, di fronte al mistero della morte, la pietas con il rimpianto e, soprattutto, con l’idea puramente intuitiva di una possibile rigenerazione.
Nel ritratto ad olio dedicato a un anonimo fanciullo, che porta il titolo emblematico quanto sintetico di 1982, il pittore esalta significativamente l’immagine di una dolce ambiguità infantile. Appare qui la stessa bellezza efebica del giovanissimo Tadzio, che il lettore ha conosciuto nelle pagine del bellissimo Morte a Venezia di Thomas Mann. Si tratta di un dipinto pervaso da un senso di innocenza e di abbandono, immerso in una luce allusivamente preserale. Con Amarcord del 1995, la ritrattistica di Gianasso si completa di un altro lavoro importante, di grande equilibrio compositivo: è un’opera che esprime solitudine, distanza, attesa forse inutile; il personaggio raffigurato di schiena è con evidenza un borghese. Qual’è la sua vicenda esistenziale?
Non sembra avere un’identità, ma il suo sguardo punta su un orizzonte non più raggiungibile, forse una dimora perduta, la trasfigurazione di una nostalgia che ha la forma di un castello lontano quanto improbabile. Pare costretto a vivere senza felicità in un mondo al quale non ha più voglia di appartenere.
Gianni Gianasso è dunque un indagatore curioso e sperimentatore di immagini metafisiche, dove l’assenza del tempo si ricongiunge alla presenza del reale (v. 16 agosto). La sua filosofia lo porta a riconoscersi dentro la natura stessa dell’esistere, ma nel contempo a mantenere una distanza sterilizzata dalle passioni o, se si vuole, dalle miserie del quotidiano.
La metafisica è per lui quindi una chiave, un metodo di indagine, che gli consente di usare l’immagine come mezzo specifico narrativo e al tempo stesso come imperativo etico. I temi umani della vita, della morte e della solitudine son costantemente ribaditi nella sua opera. Si tratta di motivi figurativi evidentemente non nuovi, ma che in Gianasso si ripropongono originalmente con una sensibilità e un linguaggio ossessivamente lucidi.
Di lui va infine detto che la tensione etica non si concede ai compromessi: l’esecuzione stessa delle sue tele, che appare laboriosa e circostanziata in ogni momento, ne è la più precisa testimonianza. Indagando senza scosse le oasi di silenzi, di stupori, egli ci immerge in un elegante incantesimo formale. Osservatori di queste scene umane dal racconto infinito ma mai ripetitive, noi ritroviamo e riconosciamo la nostra stessa quotidianità trasfigurata dalla perizia pittorica e narrativa. Il destino di questi personaggi è il nostro destino, e la loro raffigurazione è pervasa di pudore lirico, di poesia che si fa attraverso virtuose velature.
È una bella pittura questa; i fondi, i grigi, le campiture gessose, questo impasto dove si avvertono allusioni ai moduli astratti della riflessione metafisica, tutto confluisce in una lettura poetica che all’osservatore offre un’interrogazione, una non risposta nello specchio della sua stessa solitudine.
Paolo Levi