Recensioni

Critici, articoli e recensioni riguardo all’universo artistico di Gianni Gianasso

Edoardo Di Mauro, recensioni Gianasso
Edoardo Di Mauro

I lavori di Gianasso, a partire dal 1993, si sviluppano in cicli caratterizzati da alcune varianti inserite all’interno di una vena unitaria dove la pittura, sempre di qualità alta senza mai sfociare in un virtuosismo fine a se stesso, talvolta si abbina ad inserti materici e tridimensionali.
Nella serie Stati di attesa abbiamo la prevalenza di ritratti metafisici sulla scia dechirichiana dove viene operata una sorta di cortocircuito tra passato e presente e dove prevale un clima di sospensione e di mistero che evidenzia anche lievi ascendenze provenienti dalla poetica di Magritte.
Il successivo Stati di luce vede la presenza di paesaggi intrisi di magia, boschi in cui alberi dai fusti allungati si protendono verso la luce in un afflato di vita che richiama la suprema armonia tra cielo e terra predicata da un filosofo fondamentale per la storia del’estetica come Plotino.
Con Stati di replica abbiamo la ricomparsa della figura umana rappresentata con demistificante ironia in una condizione spersonalizzata che denuncia la sostanziale alienazione tra il sé ed il mondo.
In Anatomie mediali la figura inizia a cedere il passo alla costruzione aniconica dell’immagine, spesso ispirata a temi orientaleggianti. Sulle tele si dispone una sorta di disseminazione cosmica di segni e simboli la cui fitta rete tende a squarciarsi per gettare uno sguardo sulla realtà.
Linea che tendenzialmente prosegue nelle Immagini sonore dove abbiamo una prima comparsa di installazioni tridimensionali legate alla poetica dell’oggetto.
In Stati di consapevolezza Gianasso propone opere di surrealismo puro caratterizzate da uno stile vorticista che sottende l’evocazione di una curvatura spazio-temporale intuibile in uno stato di quiete ed ascesi mentale.
Le opere della serie Nuova Sognaletica, per ammissione dello stesso Gianasso sono nate, a partire dal 2012, come una sorta di gioco creativo, di variante disimpegnata del suo progetto estetico, profondamente concettuale e riflessivo ad onta dell’uso quasi esclusivo del tramite pittorico da alcuni ritenuto, profondamente a torto, non idoneo.
In realtà ben presto l’artista si accorge e diviene consapevole che, in maniera quasi inconscia come spesso avviene per le migliori riuscite, questa nuova attitudine rappresenta una sorta di sintesi delle fasi precedenti e di ulteriore passo in avanti.
La sigla prescelta dall’artista, Sognaletica, contiene in se tre elementi base atti a far comprendere la portata di questo nuovo progetto.
La dimensione del “Sogno” è propria della poetica di Gianasso, che adopera un linguaggio colto e simbolico, nonché pittoricamente raffinato, per parlare del reale e del quotidiano senza appiattirsi sulla dimensione del reportage in presa diretta. “Etica” è un termine che indica coerenza e rigore nel comportamento, ed un disinteresse finalistico di matrice stoica, oggi alquanto raro da rintracciare.
Il gioco di parole, polisignificante, si sublima nel fatto che questa serie di opere di Gianasso è collocata su supporti, parietali e tridimensionali, ispirati proprio alla segnaletica, che serve ad indicarci le giuste direzioni di marcia, ma anche ad ammonirci sui corretti atteggiamenti da seguire in strada, conducendo un mezzo o camminando, per non correre il rischio di incorrere in sanzioni o mettere a rischio la propria e l’altrui incolumità.
La dimensione, autenticamente surreale delle immagini dell’artista, si sposa in maniera insospettabile nell’abbinamento con queste superfici tratte dalla più diretta quotidianità.
Lo stereotipo oggettuale, cifra dell’avanguardia novecentesca da Duchamp fino alla Pop Art, nasce a nuova ed insospettabile vita non già con l’aggiunta tautologica di elementi affini ma, invece, divergenti ed antitetici, come le preziose icone di Gianasso.
Il collante che lega tutti i dati del progetto visivo è la carica di irriverente, trasgressiva e colta ironia, che l’artista immette nei messaggi lanciati su queste superfici, che idealizzano la piatta quotidianità informativa e pubblicitaria o, all’opposto, comunicano temi etici che riguardano la vita, il comportamento, il destino dell’arte.

Edoardo Di Mauro, agosto 2017

L’IMMAGINE DISTANTE

È un maestro di lampante derivazione surrealista. E non si tratta di una generica assimilazione di un modello di riferimento, bensì di una genesi coscientemente specificata, un’adesione al surrealismo classico, a quello di Magritte, per intenderci.
Dal surrealismo alla metafisica, per Gianni Gianasso il passo è stato breve: egli infatti affronta oggi il soggetto prescelto con responsabilità, esaltando ogni volta il colore come scrittura di sentimenti. Si tratta qui di un virtuoso, di un artista metafisico, nella cui opera la poetica dell’assenza ben si coniuga alla presenza costante della malinconia.
A lui, poeta solitario di una visione umana oggettiva estremamente contenuta, non interessa il ricorrente discorso sulla morte della pittura, sostituita dalla tecnologia o dall’atto puro del pensiero concettuale.
Al contrario, egli ha saputo ritagliarsi, in questi anni di grande confusione, un proprio spazio di libertà e una propria autonomia di contenuto, esaltato dalla qualità di una rappresentazione umana situata fuori dal tempo e dalla storia.
Figure silenti che paiono sorgere dall’ombra, immerse in una luce non terrena, sono il frutto compositivo di uno straordinario disegno preparatorio e il risultato formale di una meditata leggerezza di campiture. Il lavorio mentale del pittore perviene all’ottenimento di una forma asettica, senza sbavature, in cui ogni dato sensibile acquista un valore quasi epigrammatico, perentoriamente enunciativo.
A differenza degli espressionisti esistenziali del secondo dopoguerra (penso allo straordinario caso di Francis Bacon), Gianasso avverte evidentemente il fare arte come affermazione vitale, per cui l’ambiguità di un gesto o di uno sguardo potrà pure esprimere il significato del dolore (v. Breaking, 1996), ma certamente non la dissoluzione del corpo umano.
Se da quanto abbiamo già detto si può definire la finalità della sua poetica, bisogna tuttavia percorrere l’avvicendarsi, nel corso degli ultimi anni, delle opere di questo pittore per comprendere come il suo fare metafisico sia andato gradatamente sottraendosi all’impulso di un’immaginazione narrativa psico-fisiologica, per acquisire una sempre maggior nitidezza espositiva.
Nella sua visione più intimistica, egli sa ricostruire l’astratta geometria dell’anima e riconciliare il sentimento dell’esistenza con l’estetica della forma (v. Il Filo d’Arianna e Dream). È forse l’unico artista contemporaneo, fra tutti quelli che abbiamo conosciuto, che sappia affrontare la figura umana non come evasione, o come illustrazione iperrealista, bensì come angolazione visiva di un’energia immanente e, nel contempo, come esplicitazione emotiva della presenza (v. 16 agosto).
Ci troviamo così di fronte all’esaltazione, tra il visionario e il simbolico, di un poeta dell’immagine, che punta alla pittura come espressione di vita, segnalando la chiarezza intellettuale che gli è propria, il bisogno appassionato di comunicare le sue visioni. I suoi dipinti, quelli di cui la figura umana padroneggia lo spazio della tela in modo eccelso, sono sempre occasioni di svolgimenti di un discorso plastico e poetico che, a nostro avviso, tocca il punto più alto in una composizione del 1994, Categoria VO., che mette in scena un vecchio seduto (forse il padre dell’artista?), ripreso di profilo, in piena luce, che sembra specchiarsi in un presagio di infinito.
È questo un lavoro che testimonia un livello compositivo indiscutibile, confermando la presenza di una artista capace di coniugare, di fronte al mistero della morte, la pietas con il rimpianto e, soprattutto, con l’idea puramente intuitiva di una possibile rigenerazione.
Nel ritratto ad olio dedicato a un anonimo fanciullo, che porta il titolo emblematico quanto sintetico di 1982, il pittore esalta significativamente l’immagine di una dolce ambiguità infantile. Appare qui la stessa bellezza efebica del giovanissimo Tadzio, che il lettore ha conosciuto nelle pagine del bellissimo Morte a Venezia di Thomas Mann. Si tratta di un dipinto pervaso da un senso di innocenza e di abbandono, immerso in una luce allusivamente preserale. Con Amarcord del 1995, la ritrattistica di Gianasso si completa di un altro lavoro importante, di grande equilibrio compositivo: è un’opera che esprime solitudine, distanza, attesa forse inutile; il personaggio raffigurato di schiena è con evidenza un borghese. Qual’è la sua vicenda esistenziale?
Non sembra avere un’identità, ma il suo sguardo punta su un orizzonte non più raggiungibile, forse una dimora perduta, la trasfigurazione di una nostalgia che ha la forma di un castello lontano quanto improbabile. Pare costretto a vivere senza felicità in un mondo al quale non ha più voglia di appartenere.
Gianni Gianasso è dunque un indagatore curioso e sperimentatore di immagini metafisiche, dove l’assenza del tempo si ricongiunge alla presenza del reale (v. 16 agosto). La sua filosofia lo porta a riconoscersi dentro la natura stessa dell’esistere, ma nel contempo a mantenere una distanza sterilizzata dalle passioni o, se si vuole, dalle miserie del quotidiano.
La metafisica è per lui quindi una chiave, un metodo di indagine, che gli consente di usare l’immagine come mezzo specifico narrativo e al tempo stesso come imperativo etico. I temi umani della vita, della morte e della solitudine son costantemente ribaditi nella sua opera. Si tratta di motivi figurativi evidentemente non nuovi, ma che in Gianasso si ripropongono originalmente con una sensibilità e un linguaggio ossessivamente lucidi.
Di lui va infine detto che la tensione etica non si concede ai compromessi: l’esecuzione stessa delle sue tele, che appare laboriosa e circostanziata in ogni momento, ne è la più precisa testimonianza. Indagando senza scosse le oasi di silenzi, di stupori, egli ci immerge in un elegante incantesimo formale. Osservatori di queste scene umane dal racconto infinito ma mai ripetitive, noi ritroviamo e riconosciamo la nostra stessa quotidianità trasfigurata dalla perizia pittorica e narrativa. Il destino di questi personaggi è il nostro destino, e la loro raffigurazione è pervasa di pudore lirico, di poesia che si fa attraverso virtuose velature.
È una bella pittura questa; i fondi, i grigi, le campiture gessose, questo impasto dove si avvertono allusioni ai moduli astratti della riflessione metafisica, tutto confluisce in una lettura poetica che all’osservatore offre un’interrogazione, una non risposta nello specchio della sua stessa solitudine.

Paolo Levi

Paolo Levi
Luciano Lepri

Guardando gli incantanti lavori di Gianni Gianasso, soprattutto quelli dello splendido ciclo “Stati d’attesa”, mi è tornato in mente quanto, in un’intervista del 1958, ebbe a dichiarare il grande scrittore statunitense William Faulkner, il quale affermò che: “Scopo di ogni artista è arrestare il movimento, che è vita, con mezzi artificiali, e tenerlo fermo ma in tal modo che cent’anni dopo, quando un estraneo lo guarderà, torni a muoversi, perché è vita”.
Ecco questo è quello che nei suoi magici dipinti va facendo l’eccellente artista torinese, il quale è capace di arrestare il movimento in modo tale che fra cento anni (ne sono certo) chi avrà la ventura di osservare questi dipinti riuscirà a ridare vita a questi attimi di esistenza sospesa, di sosta misterica, di pausa sacrale dove l’umanità, ma parrebbe anche la natura e le cose, vinte dolori e ansie, messe da parte difficoltà e angosce, celate paure ed insidie, pare concentrarsi in attesa di qualcosa di catartico che gli consenta di ripartire con rinnovata forza, di risorgere con animo purificato, di ridare vita e vitalità a quei sogni, a quelle chimere, a quelle speranze che sono, e sempre saranno, il carburante con il quale far funzionare la macchina uomo.
Ma al di là di questi significati e tematiche, di indubbio fascino e di profonda consistenza, i lavori di Gianni Gianasso sono tali che ci fanno riconciliare con l’arte, in generale, e con la pittura, in particolare, proprio perché sono la dimostrazione pratica di come, e di quanto, la Pittura quando merita di essere scritta con la maiuscola (come quella del Nostro) abbia ancora da dire e da dare all’arte contemporanea.
Allora grazie a Gianasso, che con l’irrazionale della sua realtà riesce a trasmetterci il senso della vita nella sua illimitata spontaneità e fecondità in un mondo, e in un tempo, dove come ha scritto Sartre “qualche ora o qualche anno d’attesa sono assolutamente la stessa cosa”.

Luciano Lepri

Ho avuto modo recentemente di poter conoscere ed apprezzare le opere pittoriche di Gianni Gianasso e sono rimasto molto colpito dal suo grande talento espressivo che mi sembra concretizzarsi oltre che nella tecnica particolarmente raffinata dai suoi ritratti, anche e soprattutto nei contenuti di questi dipinti, sottilmente ironici ed attenti alla realtà circostante che viene rivissuta sempre in una chiave di gioco e di provocazione, ottenendo l’ottimo risultato di indurre l’osservatore a riflettere ma anche a divertirsi.

Il mio non può che essere un giudizio del tutto personale e semplice, sicuramente non professionale ma affettuoso e partecipe, visto che fra l’altro posseggo anch’io un suo bel dipinto che ritrae l’illustre Maestro e regista Giorgio Strehler e che mi è dunque doppiamente caro per l’abilità pittorica del suo autore e il suo importante contenuto.
Non mi resta perciò che augurare grande e meritato successo a quest’artista già ampiamente conosciuto ma che, a mio giudizio, merita di esserlo sempre di più.

Ugo Pagliai, Roma – 13 dicembre 2003

Ugo Pagliai
Ugo Pagliai